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Testo e foto di Gennaro Fiorentino |
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Ci pervieni attraverso una sinuosa strada
statale, scavalcando dolci colline. Proprio dietro l’ennesima curva,
la vedi lontana fiancheggiata da due palazzine pertinenza FS,
neanche male, ma che portano i segni evidenti dell’abbandono. Ti
chiedi a questo punto a chi può essere utile quella stazione
isolata, lontana da centri abitati e con un’immaginabile scarsa
frequentazione; anche se porta il seducente nome di Villarosa. Se lo
chiesero anche i dirigenti delle Ferrovie dello Stato una ventina di
anni fa, pervasi dalla frenesia mai sopita dei tagli ad ogni costo.
Tant’è che vi mandarono un giovane e solerte funzionario incaricato
di valutarne l’eventuale chiusura e conseguenti adempimenti quali
inventario, problemi logistici, consistenza degli immobili ecc. Ma Primo David, tale è il suo nome, una volta tanto disattese la missione affidatagli. E spiego. Più andava avanti nel suo compito, che come sempre eseguiva con zelo, più si convinceva che solo persone scarsamente sensibili ed informate, potevano ignorare che quella terra, simboleggiata in una stazione, aveva un potenziale di cultura, storia, etnografia ed antropologia, da valorizzare. Il resto è leggenda! Si mise di buona lena da un lato a convincere “Roma” a non chiudere l’impianto, dall’altro a rendere vivi quei luoghi con la creazione di un Museo che raccogliesse l’immenso patrimonio culturale di cui erano inconsapevoli portatori quei paesi. La sua ostinazione fu premiata. Il Museo fu
inaugurato l’8 dicembre 1995 ricevendo una sorpresa attenzione dai
mass media (testate giornalistiche e trasmissioni televisive) che
posero in risalto l’opera dell’intrepido funzionario. Ma come lui
stesso in varie occasioni ha raccontato, non era stato facile:
soprattutto combattere contro il drago della burocrazia. Veniamo ai giorni nostri. Giugno 2013. Mi trovavo
ad Enna in vacanza quando vidi alcuni segnali stradali che
indirizzavano al Museo di Villarosa. Solo una decina di chilometri
mi separavano e pensai di andarlo a visitare, preannunciandomi con
una telefonata. Sul piazzale del fabbricato viaggiatori della linea
ancora attiva Agrigento-Catania, mi attendeva il Presidente. Come
sempre in questi casi, impatto un poco imbarazzato ma le sue parole
dettate da esperienza di vita e di umanità “sentitevi a casa
vostra”, di certo furono determinanti per instaurare da subito un
rapporto di amicizia. Intanto un solitario ’Minuetto’ in corsa
domenicale raccoglieva alcuni passeggeri. Un Minuetto raccoglie qualche passeggero diretto ad Enna. In tutto il complesso sia nella vera e propria stazione, sia nella parte espositiva del Museo posta nello scalo merci, regnava un decoroso ordine. Mentre in tempi rapidi si scioglieva il ghiaccio, notai che una famiglia francese (cinque o sei persone) mi aveva preceduto nella visita. Però la loro lingua gallica non era quella dei turisti. Intuii trattarsi di siciliani emigrati lassù, verso la Francia o il Belgio, e di ritorno per vacanze. Non volendo, ero entrato
subito nello spirito di quel Museo, costituito da otto carri F
tenuti in condizioni impeccabili che contenevano la storia di un
secolo di quelle genti siciliane. Sì, perché una volta quella zona
viveva con le miniere di zolfo che veniva scavato da uomini e
bambini nelle viscere della terra. Erano le famose zolfare dove
vigeva una temperatura impossibile. Quando le mutate esigenze
industriali posero in crisi il settore, parliamo del secondo
dopoguerra, quelle stesse genti con i loro poveri averi, partirono
per la Ruhr ed il Belgio per cavare carbone. Era la sopravvivenza ma
era anche l’esecuzione del patto tra l’Italia ed i cosiddetti
partner, braccia contro carbone. Mi viene in mente Marcinelle-Belgio
(8 agosto 1956) dove si consumò la grande tragedia mineraria con 262
vittime; e chissà quanti di quei poverini non siano partiti proprio
da qui per ritornarvi in una cassa di legno.
Primo si offre di
farmi da guida mettendo da parte il tono da cicerone ma adoperando
quello intimo e confidenziale del vecchio amico. Mi dice subito che
come contrappasso al tragico utilizzo di quei carri F che fu quello
di deportare gli ebrei verso le foibe, aveva deciso di dedicare il
Museo alla memoria di “Giovanni Palatucci”, il giovane funzionario
di polizia che grazie al suo acume, riuscì a salvare decine di
sventurati dalla deportazione. Purtroppo pagò il suo altruismo a
caro prezzo, morendo egli stesso in un campo di concentramento in
giovane età. Poi è la volta del gioiellino dell’esposizione: un’automotrice a cremagliera in servizio una volta sulla linea Dittaino-Piazza Armerina chiusa l’11 luglio 1971. Matricola RALn 6012 facente parte di un lotto di 9 unità costruito a partire dal 1949 dalla FIAT. Me la fa trovare con le porte spalancate ma con una temperatura interna da forno. Ne ammiro l’interno di certo trasformato nel tempo, ed il banco di condotta. L’automotrice RAL 6012
parcheggiata su binario a scartamento ridotto
Passiamo in rivista i carri
F.
È La perfetta simulazione
di una miniera di zolfo ospitata in uno dei carri F Il singolare carro
anteguerra adatto per trasporto carri armati Il monumentale “cimelio delle acque”. Spero che le foto inserite,
scelte con imbarazzo tra le tante scattate, diano un’idea dello
spirito e delle finalità dell’esposizione nei carri F. La storia di
questo Museo ha tanti punti in comune con quello di Colonna e con il
suo intrepido protagonista Giuseppe Arena. Condivido il pensiero con
Primo David, trovandolo pienamente d’accordo. Prende spunto per
citare
l’ing. Muscolino che gli ha dato una mano a risolvere i problemi
burocratici. Poi aggiunge che il Museo di Colonna è nelle mani di
una “Grande Famiglia”. Come non essere d’accordo? Prima di lasciare lo scalo
merci Museo, l’Anfitrione ci tiene a farmi vedere due cose
particolari che, come dice, “riserva per gli intenditori”. Si tratta
di un carro risalente agli anni ’30, piuttosto schematico, che era
destinato al trasporto veloce dei carri armati. A dire il vero lo
trovo interessante ma lo giudico ancora di più seducente pensando
all’amico Ennio. Sono certo che possa essere pane per i suoi denti,
prevedendo che lo riprodurrà, senza dubbio, in
scala H0. Pertanto fotografo a più non
posso. Poi mi manda sui binari verso sud per visionare
il cimelio delle acque risalente al 1876. Si tratta della cisterna
terminale di una grande opera idraulica che dopo numerosi manufatti,
conduceva qui l’apporto idrico sia per le locomotive che per le
esigenze di stazione, incluso la casa del capostazione. Alla fine della visita ci tiene a farmi vedere il
non lontano complesso agrituristico dei suoi amici. Mi allontano mentre quel paesaggio così selvaggio e solitario, mi rende il miraggio acustico di sentire lo straziante grido che apre la colonna sonora del film “Per un pugno di dollari” di Ennio Morricone. Ma la grigia struttura del viadotto autostradale
che corre sulla mia testa mi riporta presto alla realtà di quella
gradevole serata estiva.
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