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di Maurizio Panconesi |
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Umberto I, re d'Italia |
Quello che segue è un racconto ambientato nel 1889 e liberamente tratto da un fatto vero, vissuto in prima persona dal bisnonno di chi scrive e riportato dai tanti racconti fattigli dell’episodio dal nonno, il figlio del macchinista Nìccolo. La narrazione fa parte di una serie di tante altre ed è riportata nel libro: “Racconti di / da viaggio”, edito nel 2006. |
Il macchinista Nìccolo Panconesi
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Nìccolo - classe 1859 – era in fondo un padre buono: si sarebbe detto un vero “pezzo di pane” rispetto a sua moglie Italia, tanto da apparire ai suoi figli quasi come uno di loro … salendo a volte, per qualche ciliegia da donare ai suoi piccoli, proprio su quell’albero al centro del giardino da cui la rigida mamma sempre li allontanava, un po’ per timore, un po’ per quel suo carattere burbero e severo che non la faceva amare neppure da loro.
Nìccolo era macchinista della Mediterranea nel Deposito di Livorno; entrato giovanissimo in ferrovia in qualità di accenditore, era divenuto presto fuochista risultando tra poi tra i primi del corso per allievi macchinisti in virtù di quella sua sensibilità e “compenetrazione” con la macchina, la locomotiva, che lo rendevano un tutt’uno con il proprio mezzo meccanico. Divenuto macchinista, gli erano stati assegnati dapprima i brevi locali ed omnibus per destinazioni vicine, poi i diretti e quindi, nel breve volgere di pochissimi anni, i sospirati direttissimi appena istituiti: guardato anche con un pizzico di invidia da alcuni colleghi più anziani per la sua rapida carriera fino a conduttore dei treni più prestigiosi, Nìccolo aveva raggiunto tale gradino soprattutto per la sua apprezzata bonarietà e per quell’abbondante dose di simpatia che l’aveva subito reso ben accetto anche ai suoi superiori. Ma queste non erano le sole doti che portava con se: il pregio più grande era quello di voler svolgere bene il proprio lavoro, con caparbietà e pignoleria, doti che più volte gli avevano consentito di diagnosticare difetti o guasti ormai impellenti sulla sua locomotiva evitando di dover “chiamare riserva”. Così continuava il suo lavoro, anno dopo anno, venendo riconosciuto, pur nella sua ancor giovane età – aveva soltanto trent’anni! – ormai come un maestro, titolo assegnato ai macchinisti con ben più anni all’attivo di lui. |
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L'attesa del treno in una immagine di fine '800. |
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Macchinisti sulla Porrettana nel 1852. |
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Poi, un giorno, inaspettatamente, la comunicazione del suo Capodeposito che, scherzando, gli disse: “Oh Nìccolo, o che tu lo vuoi fare il Treno Reale di giovedì?” “… Chi tace … acconsente. Va bene! Giovedì guiderai col Cardinali il Treno del Re! Spero che tu non mi faccia sfigurare: sai, sono stato proprio io a proporti per questo compito!” Nìccolo ammutolì non sapendo se il suo capo scherzasse o dicesse sul serio. Pregò allora di ripetergli la comunicazione: sì, era proprio così … sarebbe stato il macchinista del Treno Reale! Ed il Capodeposito aggiunse: “Guiderai la Giovanna d’Arco”. La Giovanna d’Arco, il sogno segreto di ogni macchinista della Mediterranea, la più bella locomotiva della Rete, sempre lustra e curata in un angolo tutto suo della Rimessa, giunta da Torino alcune settimane prima ed al centro delle curiosità e delle indiscrezioni del personale circa il suo futuro ruolo. Scintillante nei suoi tanti ottoni pur nell’oscurità del suo angolo … si diceva che potesse raggiungere, con le sue gigantesche ruote motrici alte due metri e dieci, il muro dei 100 chilometri all’ora … una velocità che Nìccolo non aveva mai toccato in vita sua. Si diresse quindi – ora che aveva la veste per farlo – sebbene ancora un po’ timoroso, verso quell’oggetto misterioso dei suoi desideri, accarezzando quelle curve morbide che, tra pochi giorni, sarebbero state affidate a lui!
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La locomotiva "Giovanna d'Arco", poi 1701 della Rete Mediterranea (RM) e quindi capostipite del Gruppo 560 F.S. |
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La sera precedente il grande viaggio, Nìccolo partì da casa assai nervoso salutando appena la moglie che, come mai prima, si era dimostrata premurosa verso di lui; in stazione, aveva incontrato l’amico – collega Cardinali, anch’egli con il suo borsone contenente la nuova divisa fiammante ricevuta il giorno precedente dalle mani stesse del Capodeposito. Salite le scalette del treno per Roma, iniziarono – quasi come due generali che dovessero discutere la tattica della prossima battaglia – ad esaminare ciò che fosse meglio fare per una condotta ottimale del convoglio reale, quasi che non si fossero più visti in seguito … Giunsero nella Capitale e, direttisi verso la Rimessa del Treno Reale, rividero l’imponente sagoma della loro Giovanna d’Arco già in pressione, ancora per poco nelle mani di altri, con il suo lungo seguito di luccicanti vetture dall’aspetto inusuale: era il Treno del Re! Era il loro treno! Ancora non riuscivano a credere ai propri occhi per quel sogno impossibile divenuto all’improvviso realtà … il sogno di ogni macchinista. Proprio a loro, tra i tantissimi musi neri dispersi lungo le tante linee della Mediterranea, su ferrovie importanti o tracciati secondari … sarebbe toccato l’onore di condurre quel treno. Salirono con fare riverente, quasi timoroso, sulla locomotiva su cui era già presente un macchinista ed un accenditore, qualificandosi: “Siamo i macchinisti del Treno Reale!” L’altro macchinista, complimentandosi con i colleghi, li ragguagliò sui comandi e particolarità di quella nuova macchina, un “vero gioiello” nato dalla matita dell’Ufficio d’Arte di Torino dell’Ingegner Frescot.
Mossero lentamente la macchina che profumava ancora di vernice, giungendo sotto la tettoia di Roma Termini: Nìccolo proseguì la marcia a velocità ridottissima fino a raggiungere la delimitazione con vernice bianca presente sul marciapiede, limite a cui si doveva allineare la traversa di testa della macchina affinché la scaletta della carrozza reale fosse esattamente in corrispondenza della guida di velluto rosso stesa sul marciapiede che doveva essere percorsa dal Re. “Eccolo … Nìccolo… è proprio lui, il Re!” gli urlò eccitato il suo fuochista Cardinali, aggiungendo “Mi sembra così burbero e severo!” “Mai come la mia Italia … sarebbe impossibile!” aggiunse Nìccolo. Il convoglio, salite tutte le autorità, si mise lentamente in movimento; durante il viaggio, in ogni stazione, folla di ogni foggia e classe sociale li acclamava (… od almeno, pareva acclamassero anche loro …) mentre altri macchinisti, a bordo dei propri convogli ordinari, cedevano loro il passo osservando soprattutto i propri colleghi con curiosità. Erano loro i più importanti! Un sentimento di gratitudine, Nìccolo, lo sentiva per quel filo di fumo alcuni chilometri più avanti … che li precedeva nella loro marcia: erano i macchinisti del treno staffetta, destinati, in caso di “anomalie”, a sacrificarsi con il loro treno al posto loro: quel convoglio, infatti, al traino di una locomotiva identica - anch’essa una 170 RM - li anticipava di dieci minuti, rendendo così la loro marcia ancor più fluida e veloce, scevra da ogni preoccupazione che non fosse quella di eventuali rallentamenti. Ma per queste evenienze, e per la successiva manovra, Nìccolo non nutriva timori perché per essa andava rinomato in tutto il Deposito di Livorno: c’era infatti chi giurava di averlo visto arrestare – per scommessa – la sua locomotiva a due dita dal terminale del tronchino … senza toccarlo! Anche nella successiva fase di arresto, egli sapeva mettere tutta la sua perizia ed esperienza di anni, portandolo a termine in un modo eccelso, riuscendo ad evitate il consueto, usuale contraccolpo che provocava solitamente la caduta dei bagagli più grossi ed instabili dalle cappelliere all’interno degli scompartimenti. Forse – pensava – era proprio per questo che l’avevano chiamato ad un compito così prestigioso … per non recare danno alle preziose ossa di Sua Maestà! Il treno arrivò a Pisa S. Rossore, non lontano dalla Tenuta di caccia della Casa Reale. Giunto in stazione ed arrestato il convoglio con la consueta maestrìa in corrispondenza della striscia bianca sulla banchina, macchinista e fuochista, dopo aver seguito la discesa del Re dalla sua carrozza attorniato da dignitari e dal drappello d’onore dei corazzieri, rientrarono in cabina per accudire alle solite verifiche prima della consegna della macchina in Deposito. Mentre era impegnato nel controllo del fuoco e della pressione in caldaia, una voce concitata lo richiamò: “Nìccolo … c’è … Sua Maestà che ti vuole… è qui sotto!” Era il fuochista Cardinali che, con aria assai preoccupata, si era rivolto al collega per riportargli la volontà del Re che, risalito il convoglio, si era fatto sotto la cabina della loro locomotiva. Pulitosi frettolosamente mani e volto con del cascame bagnato, nell’impossibile tentativo di darsi un aspetto presentabile per … il suo Re, Nìccolo si sporse agitatissimo dalla piattaforma della macchina: lì, sotto di lui, c’era il Re d’Italia, con il suo aspetto severo, attorniato da decine di dignitari di Casa Savoia oltre ad alte personalità tra cui riconobbe – unico tra i tanti – il suo Ingegnere della Trazione … sorridente! |
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Orologio Roskopf di tipo ferroviario risalente alla fine del 1800.
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“Qua la mano , giovinotto!” “...Molto, molto bene! Qua la mano!... E per manifestarle il mio apprezzamento per la sua egregia condotta di guida, desidero donarle il mio orologio… come mio ricordo… affinché, consultandolo, possa sempre viaggiare in perfetto orario, proprio come oggi!” “Grr…grazie, Maestà, ma io…” e non ebbe più né il fiato né il coraggio per aggiungere altro. Re e seguito si allontanarono poi velocemente, dirigendosi verso l’uscita della stazione là dove la Regina con le dame di corte erano già in attesa. Nìccolo mostrò imbarazzato quel prezioso attestato di stima al suo fuochista: “…Lo dovrei dividere con te…” disse mentre estratto un fazzoletto ancora lindo dal taschino del panciotto, vi avvolse delicatamente il prezioso orologio d’oro che, fino a pochi istanti prima, era stato del Re d’Italia! “Chissà cosa dirà stasera a casa la mia Italia …chissà, forse per una volta riuscirà anche a sorridere!” e così dicendo, sporgendosi dal finestrino, riavviò la sua Giovanna d’Arco alla volta del Deposito … mentre una lacrima furtiva solcava quel volto cotto dal sole e dal vento. |
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