a cura di Antonio Gamboni |
Riportiamo, nelle righe che seguono, la prima parte di un viaggio da Napoli alla sommità del Vesuvio fatto nel 1930 dal prof. Alessandro Malladra, allora Direttore dell'Osservatorio Vesuviano. Quanto descritto fa parte di una Guida che l'illustre vulcanologo pubblicò il 27 aprile del 1930 in occasione dell' XI Congresso Geografico Italiano. Il viaggio fu effettuato servendosi di tre diversi mezzi di trasporto: da Napoli a Pugliano, con un treno della Circumvesuviana; da Pugliano alla stazione inferiore della Funicolare, con il trenino della Ferrovia Vesuviana; di qui alla sommità del Vulcano, con la Funicolare.
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L’ora della partenza sta per scoccare. Scendiamo nel vasto e bene ordinato piazzale della Circumvesuviana, ove i treni in partenza sono a destra. Nelle nuove ed eleganti vetture, i posti a sinistra sono più indicati per la vista del Vesuvio e della pianura campana; quelli a destra per la vista degli abitati costieri e per fugaci visioni del mare e delle isole. Ma qualunque posto è buono pel nostro breve viaggio sino a Pugliano; 10 km, che il diretto compie in 16 minuti, senza nessuna fermata intermedia. Le lampade elettriche sono accese, perché al piazzale aperto e alla breve trincea alberata che gli tien dietro, segue tosto una galleria che traversa il terrapieno delle Ferrovie dello Stato. Appena fuori, abbiamo a destra la prima tratta dell’autostrada Napoli-Pompei, fiancheggiata da stabilimenti industriali grandi e piccoli; a sinistra il suddetto terrapieno sino al triplice arco del sottopassaggio della linea Napoli-Cancello, e poi le sgangherate baracche dei lavoratori di stracci e altri edifizii industriali, frammezzati da campi, da pozzanghere, da fili d’acque stagnanti, da orti, con le aiuole rialzate e molto convesse per dare un po’ di asciutto alle radici, coperte da insalate, cavoli, pomodori, melanzane, ecc.
La stazione di Napoli della Circumvesuviana al tempo del Malladra (Archivio S.F.S.M.).
Un convoglio appena giunto sul piazzale di Napoli in una foto del 1931 (Archivio S.F.S.M.). Siamo al Pascone, che confina a Nord-Est col Pasconcello, dove la falda acquifera è quasi a livello del suolo; regione famosa da tempo immemorabile per la esuberante feracità del suolo in perenne coltivazione, per le meravigliose ortaglie destinate al ventre di Napoli; ma che oggi rapidamente si va riempiendo di nuove case e nuovi stabilimenti, allineati lungo nuove vie appena tracciate e ancora fangose, per dare posto all’impellente dilatarsi della metropoli anche da questa parte, specialmente da questa parte, dove si sta sviluppando il grande rione industriale con la zona franca. La popolazione partenopea è essenzialmente vegetariana e fa grande consumo di ortaglie d’ogni specie; il che spiega l’enorme sviluppo della cintura coltivata ad orto (relativamente assai maggiore di quanto osservasi nelle grandi città settentrionali d’Italia), la quale occupa non solo gran parte dei Campi Flegrei e della zona a Nord della città, ma si estende maggiormente da questo lato orientale tutto pianeggiante, sino alle prime falde del Vesuvio. Il buon popolo napoletano ricorda talvolta con un certo rimpianto i tempi dell’anteguerra, quando con due soldi si aveva “na livra e vurracce” (20 mazzetti di borraccia), le “pommarole” (pomodori) costavano tre lire al quintale, e con venti centesimi si comprava “nu cuofano e cucuzzielle o mulignane” (un cesto di zucchini o di melenzane). Oggi nell’attraversare queste feracissime terre, dalle interminabili aiuole ricche di ogni ben di Dio, sulle quali ogni testa di lattuga rappresenta un nichelino, ogni zucchetto una moneta da cinquanta centesimi ed ognuno dei più magnifici cavolfiori allineati all’infinito è il rappresentante legittimo di un pezzo d’argento da cinque lire, viene naturale di domandarsi, se in luogo del Pascone, non attraversiamo per avventura le ricche sale e le officine di una Regia Zecca. Poco prima della fermata facoltativa del Pascone attraversiamo un minuscolo corso d’acqua limacciosa, il quale è nientemeno che il Sebeto, il famosissimo e storico Sebeto degli antichi, di cui fu detto: “Quanto ricco d’onor, povero d’onde”; sopra il quale, un po’ più a valle, all’incrocio dello stradale di Portici, il viceré Mendoza fece costruire nel 1555 un gigantesco ponte (il ponte della Maddalena), che fece esclamare al Re di Napoli: “O più acqua, o meno ponte!” e che il giocoso scrittore Achille Gigante paragonò a una bardatura da elefante sulla schiena di un umile ronzino. Il trenino corre veloce; a destra i nuovi grandi serbatoi di nafta e benzina, ancora in costruzione, e più verso mare, l’abitato, gli stabilimenti e la chiese di S. Giovanni a Teduccio, con la sua svelta cupola e i piccoli campanili laterali; a sinistra campi e ortaglie con fabbricati industriali, tra cui l’alta torre cilindrica di una fabbrica di pallini da caccia; sullo sfondo il profilo bicipite del Somma-Vesuvio. La linea sale, per attraversare su due ponti in ferro due ferrovie dello Stato, una a semplice binario che è la linea del porto, l’altra a doppio binario che è la linea per Salerno, Brindisi e Reggio; si attraversano nello stesso tempo il collettore dei torrenti di Pollena e lo stradale per Ponticelli. Da questa breve altura la vista si estende a sinistra sulle due ferrovie riunite sino al gran piazzale di manovra, fiancheggiate in fondo da altri grandi serbatoi di nafta e benzina. Si ridiscende rapidamente, costeggiando le grandi officine della “Elettrochimica Pomilio”, per l’industria della soda col metodo Solvay, del cloro, del fosgene e di altri derivati, e si entra (km 4) nella stazione di S. Giovanni a Teduccio, dietro la quale, a sinistra, si estendono le grandi fabbriche della Società meridionale per la seta artificiale.
Convoglio proveniente da Napoli ed in arrivo alla stazione di San Giovanni (Archivio S.F.S.M.). Questa stazione contiene pure le officine della Circumvesuviana per la riparazione del materiale viaggiante. Dopo S. Giovanni, la linea descrive una grande curva piegando a NE, ed il Vesuvio sempre più chiaro appare a destra, dove si scorgono anche i Monti Lattari e l’isola di Capri; a sinistra, se il cielo è limpido, si scorge il lontano Appennino di Maddaloni e Caserta, e più lontano le montagne del Matese. Nelle immediate vicinanze, campi ed ortaglie di ogni sorta; ma specialmente aiuole ben tenute di pomodori “a fiaschelle”, con qualche albero fruttifero e qua e là i soliti pozzi con la catena delle secchie grondanti, che salgono piene e scendono vuote, mosse dal quadrupede che gira sulla sua pista con gli occhi bendati. Si attraversano i lavori di scavo di un grande canale che dovrà essere navigabile dal mare al retroterra a benefizio del quartiere industriale che fin qui estende le sue propaggini; poi, a sinistra, una delle sottostazioni dell’energia elettrica della nostra ferrovia, circondata da aiuole e fiori, e quasi del tutto rivestita da rampicanti da giardino, e finalmente (non abbiamo percorso che un chilometro in poco più di un minuto) la stazione di Barra.
Dopo la stazione di Barra, una linea procedeva verso destra, dirigendosi a S. Giorgio a Cremano, e l'altra, a sinistra, per Ottajano (Archivio S.F.S.M.). Dopo Barra il nostro trenino volge direttamente a Sud-Est per raggiungere S. Giorgio a Cremano con tre chilometri di percorso, in mezzo a campagne rigogliose; dove alla cultura orticola si aggiungono gli agrumi, il frutteto e la vigna. Il Vesuvio è ritornato a sinistra e si estolle sempre più maestoso; il contrasto di colore fra le due cime appare più forte; tra il verde del Somma e il bruno-rossigno del Gran Cono, si stende l’arco nereggiante del Colle Umberto, nel cui centro campeggia la macchia bianca dell’Eremo e quella rossa dell’Osservatorio Vesuviano. Si passa la fermata facoltativa di S. Maria del Pozzo e sempre in mezzo a magnifica campagna si entra in S. Giorgio a Cremano, attraversando una parte di questo ameno borgo, che visto dall’alto ha la forma di una stella con sei raggi, frammezzati da boschi e giardini. Il treno rientra in campagna tra lunghi filari di ortaglie, coperti dalla vite, coltivata a ombrelle contigue e intrecciate. Alle nostre spalle si scorge Napoli con S. Elmo, il Vomero e la collina dei Camaldoli.
La stazione di S. Giorgio a Cremano. Sullo sfondo l'attuale piazza M. Troisi. (coll. V. Simonetti). Si giunge tosto alla fermata di Cassano-Campitelli, altro luogo di villeggiatura con palazzetti e villini sparsi tra il verde alla rinfusa, su molti dei quali è distesa l’antenna della radio. Passiamo la nuova stazione di Bellavista, ancora in costruzione, che sarà un grazioso fabbricato in stile lombardo, e poco dopo, a destra, un grande stabilimento, che fu già attivissimo molino con fabbrica di maccheroni, prima e durante la guerra. Bellavista, nome ben meritato per questo quartiere alto del comune di Portici, che sale fino a 150 metri sul mare, traversato da una larga arteria ben lastricata e fiancheggiata da innumerevoli ville, circuite da giardini e da boschetti di lauro, di bambù, di corbezzoli e di conifere, con ricchissimi frutteti. Dove la lava sottostante emerge dal suolo in groppe e monticelli, il fico d’India troneggia e l’agave espande le larghe foglie spinose o innalza al cielo il suo candelabro di fiori.
La vecchia stazione di Portici. Sulla sinistra l'imponente fabbricato dei Mulini. (coll. V. Simonetti).
La graziosa stazione di Portici-Bellavista, sostituirà proprio negli anni '30 il vecchio fabbricato della precedente immagine (coll. G. Fiorentino).
Ed eccoci a Via della Salute, nome che è tutto un programma di benessere e di felicità; il colera del 1854 che infierì a Portici e a Resina e si portò via anche il nostro Macedonio Melloni, non penetrò quassù; donde il nome augurale. Poco dopo si entra nel bosco del Palazzo reale di Portici, oggi appartenenza della R. Scuola Superiore di Agricoltura, che ne ha disboscato la parte che attraversiamo per stabilirvi culture razionali di gelsi, frutteti e altre essenze vegetali. Il bosco fu creato da Carlo III di Borbone, insieme alla reggia di Portici (1738) e si estende di qui fino al mare, costituito essenzialmente da macchie foltissime di lecci secolari. Per piantarli già adulti, fu perforata per ogni pianta la colata lavica del 1631, spessa da uno a tre metri, che passò di qui per rovinare Portici. A destra, in uno spiazzo del bosco, sorge la moderna “Stazione sperimentale per le malattie del bestiame”, creata da pochi anni dal R. Istituto d’Incoraggiamento di Napoli; di fronte, a sinistra, un modello di fortilizio con feritoie, torri, spalti e fossato all’ingiro munito di ponte levatoio, edificato dai Borboni per l’istruzione militare dei Reali Infanti. Si traversa il rimanente del bosco, parte in trincea e parte in breve galleria; si taglia la piazza di S. Maria di Pugliano, chiesa madre di Resina, e si giunge alla stazione di Pugliano, al 10° km da Napoli, dove si scende per prendere la ferrovia del Vesuvio. Uno stesso piazzale bene inghiaiato e pulito accoglie le due stazioni di Pugliano; cioè della Circumvesuviana e della Vesuviana; la prima a valle, coi suoi graziosi giardinetti fioriti tutto 1’anno, e la seconda a monte con la sua torretta e la poetica veranda sempre aperta, protetta da una, pensilina rivestita del sempreverde Eleagnus ferrugìneum. Se le due ferrovie avessero mantenuto lo stesso scartamento ridotto, le vetture del Vesuvio avrebbero potuto circolare fino a Napoli. Ma la larghezza dell’interbinario della Circumvesuviana è di metri 0,90; quello della Vesuviana di metri 0,95; bisogna dunque cambiar treno.
Il piazzale comune alle due stazioni visto in arrivo da Napoli. Sul lato destro vi è quella della Circumvesuviana denominata Resina; sulla sinistra quella della Ferrovia Vesuviana denominata Pugliano. Oggi, sia Resina che Pugliano fanno parte di Ercolano. Una piccola precisazione: nella descrizione del prof. Malladra gli scartamenti delle due ferrovie sono citati in maniera errata. Infatti quello della Circumvesuviana è m 0,95 mentre l'altro è 1,00. (coll. A. Gamboni)
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Articolo tratto da: A. Malladra, Guida della escursione al Vesuvio, Napoli 1930.
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