di Gennaro Fiorentino

ispirato da Ennio Castelletti

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Francesco Guccini (classe 1940) è un apprezzato cantautore modenese dal curriculum ricco e vario. Le sue doti artistiche lo annoverano anche tra gli autori di pezzi musicali scritti per altri cantanti; e non solo. La sua spiccata versatilità ne fa uno dei maggiori esperti italiani di dialettologia, lessicologia ed etimologia. E mi fermo qui per non divagare dalle tematiche usuali di questo sito.

Com’è immaginabile, nella sua lunga carriera ha fatto incetta di prestigiosi premi e riconoscimenti nell’ambito di concorsi musicali nazionali ed internazionali. Insomma un personaggio di notevole spessore per il quale sono stati coniati appellativi disparati; basti per tutti quello che lo definisce un poeta universale a cavallo di tre generazioni. Il che non mi sembra poco.

In seguito ad una proficua conversazione con Ennio Castelletti, ho voluto verificare quanto ho appreso dal nostro socio (ed amico). A conclusione dei suoi affollatissimi concerti, gli piaceva concludere con una sua ballata dal titolo “La locomotiva”. Se Ennio non mi avesse preparato a interpretare questo dettaglio, lo avrei potuto immaginare tra gli appassionati di ferrovie (o di fermodellismo).

Prime battute dello spartito de La Locomotiva

Testo e Musica di Francesco Guccini.

La spiegazione è invece ben diversa. Questa sua canzone di successo narra la storia di un drammatico episodio accaduto in un contesto ferroviario, il 20 luglio 1893, nella stazione di Bologna. Del fatto se ne occupò in maniera doviziosa, il quotidiano felsineo “Il resto del carlino”; nell’edizione ovviamente del 21 luglio seguente.

Prima di riferire la storia, mi sembra appena il caso di rammentare che all’epoca la rete ferroviaria italiana era una sorta di macedonia, ripartita tra una pluralità di compagnie, che sarebbero state fuse (e nazionalizzate) solo nel 1905.

Il bacino di Bologna apparteneva alla Rete Adriatica. Il nodo di tale capoluogo era al servizio di quattro linee importanti che ivi confluivano. Mentre il suo piazzale era attraversato da cinque binari di corsa.

La Stazione di Bologna vista da Piazza delle Medaglie dOro (coll. A. Gamboni).

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 IL PROTAGONISTA DELLA STORIA

il fuochista Pietro Rigosi della RA

Erano le prime luci dell’alba del fatidico giorno (ore 4,45), quando giunse all’ufficio telegrafico della stazione, un drammatico dispaccio proveniente dall’omologo impianto di Poggio Renatico (Linea Venezia Bologna progressiva km 127 a meno km 33 da Bologna ndr). Si allarmava la dirigenza che una locomotiva isolata ed incontrollata, si stava dirigendo verso tale impianto ad alta velocità. Si raccomandava pertanto di coinvolgere i quadri tecnici per predisporre la via libera da persone e da materiale viaggiante, onde prevenire disastrose interferenze. E mettere in atto, dove possibile, ragionevoli espedienti per cercare di interrompere o limitare la corsa sfrenata. Ciò si sperava, in attesa di chiarire l’origine dell’inconsueto quanto drammatico evento.

Successivi avvistamenti lungo l’itinerario, permisero di appurare che il veicolo era tutt’altro che fantasma essendo condotto da un macchinista non meglio identificato.

Erano circa le 5,10, quando la macchina pervenne in stazione a Bologna. Dopo concitate quanto frenetiche consultazioni, si era deciso di istradarla su un binario tronco dove sostavano solo alcune carrozze, peraltro vuote. Una volta intuito che la folle corsa stava per concludersi, il macchinista diede “manetta”, incurante dei gesti di esortazione dei colleghi a terra che lo invitavano a frenare o gettarsi a terra. Indi con una manovra rocambolesca, si portò verso il frontale dell’ansimante bestia, collocandosi sotto il fanale, fronte coda ed in guisa di simulare un ultimo abbraccio con il mostro.

L’urto fu tremendo. In men che non si dica, sullo sconvolto luogo dell’immane tragedia, fu un accorrere di tecnici, operai, poliziotti o semplici curiosi, malgrado la tranquilla ora antelucana.

Tra gl’immaginabili rottami, fu miracolosamente tratto il corpo del ferroviere ancora vivo. Fu portato quindi in ospedale dove lo attendeva una lunga degenza. Ne uscì due mesi dopo con una gamba in meno ed un volto piuttosto sfigurato. In concomitanza con la sua permanenza nel nosocomio, era intanto scattata la prevedibile inchiesta, a cura di solerti ispettori. La commissione arrivò ad una conclusione appurando una verità; ma secondo me non proprio la verità assoluta.

Il protagonista della vicenda si chiamava Pietro Rigosi, 28 anni, sposato con prole. Era in forza tra il personale viaggiante della stazione di Bologna con la matricola 42918 Strade Ferrate Meridionali - Rete Adriatica, e la qualifica di fuochista. Il suo profilo professionale era connotato da luci ed ombre. Mentre da un lato infatti era un buon operatore delle sue mansioni, dall’altro venivano registrati frequenti episodi di indisciplina e di litigiosità nei confronti dei colleghi. Non erano stati pochi i richiami scritti e le multe comminate di tanto in tanto, che si era guadagnato nel tempo. Ma veniamo al nostro racconto.

La notte di quel 20 luglio, era addetto ad un treno merci. La macchina in trazione era la 3541. Profittando della momentanea assenza del collega macchinista, tale Carlo Rimondini, con grande freddezza aveva staccato la motrice dalla teoria dei carri merce. Quindi preso il comando della condotta, non prima di aver bloccato il fischio per conferire clamore alla pazzesca azione, si dirigeva di gran carriera verso Bologna.

Ricostruita la sequenza di quella tragica mattinata, ai solerti ispettori restava il compito più arduo ossia dare una risposta al conseguente “perché”. Non ci volle molto per concludere che il nostro “eroe” soffrisse di un’instabilità mentale. Certo gli episodi di insofferenza verso i colleghi ed i superiori, contribuirono ad avallare la tesi dell’incapacità sanitaria. Ne fu pertanto deliberato il licenziamento ritenendo la sua fragilità compromettente per la sicurezza. Alla dimissione dall’ospedale, lo attendeva la lettera in tal senso accompagnata da una modesta buon’uscita. Il soggetto non volle accettare la sommetta, se non dopo che ne avessero variato la definizione in “elargizione”. Nessun procedimento penale, e men che mai civile per i danni, fu incardinato. Allora come oggi, l’handicap mentale è motivo di man leva o attenuante per qualsivoglia azione illegale.

Ma per completezza del raccontino, non si può tacere di una verità parallela e scomoda. L’azione del fuochista Rigosi, per certi versi goffa e maldestra, avrebbe avuto la finalità di denunziare le pesanti condizioni di lavoro cui era sottoposto il personale di macchina. Si parla di turni massacranti con quintali di carbone da spalare. La statistica indica nel 10% del numero degli addetti, quelli che arrivavano vivi o comunque in discrete condizioni fisiche al termine della carriera. Quindi si potrebbe supporre un’azione dimostrativa nella sua platealità.

Questo è l’aspetto epico della vicenda che ha ispirato il nostro poeta Guccini, suggerendogli una composizione dal tono un po’ rivoluzionario se non addirittura anarcoide.

Se vi ho incuriosito tanto da desiderare di ascoltare la ballata “La locomotiva” del 1972, non dovete fare altro che cercarne una versione tra le tante, nel noto canale you tube.

 LA PROTAGONISTA DELLA STORIA

Locomotiva 3541 della RA

La macchina protagonista della storia, era la matricola 3541 della Rete Adriatica. Si trattava di una locomotiva del genere “Bourbonnais”, di scuola francese; sia pure costruita in Italia.

Prima di parlarne, sarà opportuno fare un passo indietro e spostarci verso la Francia. Intorno alla metà dell’800, aveva riscosso un certo successo una classe di locomotive di costruzione inglese delle industrie Stephenson. Era una tre assi secchi a sei ruote motrici alle quale l’azienda produttrice conferì il soprannome di Mammouth per l’aspetto rozzo ma anche per una discreta potenza.

Col tempo l’idea fu adottata dalle industrie locali dando vita ad un Mammouth alla francese che, impiegato sulle linee del centro Francia, fu detta Bourbonnais proprio dal nome della sua regione di destinazione (da Parigi).

L’idea progettuale fu presto esportata in Italia trovandone adozione sia presso la compagnia SFAI che presso la RA. Questa provvide ad elaborare un progetto proprio, negli studi di Firenze, deliberando la costruzione di 130 esemplari (3501-3630 tra il 1888 ed il 1891) la cui produzione venne affidata ripartita tra Ansaldo e Breda. Piccoli lotti furono assegnati per la manifattura a rinomate industrie straniere. La macchina aveva tender separato a tre assi che fu portato a due assi nell’ultimo gruppo prodotto e costituito da 10 esemplari. Il loro rodiggio era 0-3-0 o se si preferisce, C.

Locomotiva RA 3589 apparteneva allo stesso Gruppo della RA 3541 (Foto FS - coll. A. Gamboni).

Non erano tante le virtù delle 350, eppure seppero guadagnarsi la pagnotta fornendo un servizio affidabile ancorché non proprio veloce, distinguendosi in particolare su percorsi tortuosi grazie alla loro maneggevolezza. Il loro impiego era in prevalenza destinato ai treni merci ed in parte a quelli passeggeri.

Nel 1905, con l’unificazione delle ferrovie, furono assunte nelle FS. In questa loro qualità vennero reimmatricolare come gruppo 270. Pertanto si trovarono giusto in tempo per vivere le vicende della I GM fornendo un eccellente servizio al traino di tradotte di soldati oppure per spostamento materiali.

La maggior parte fu con gradualità radiata negli anni ’20 del 900. Qualche esemplare sopravvisse fino ai primi anni ’30 (sempre del 900).

Nessuna unità è stata salvata; anche se la 290.319 custodita a Pietrarsa, se ne può considerare un parente stretto.  

 

Coppia di Locomotive Bourbonnais e personale ferroviario (Foto coll. A. Gamboni).

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L’episodio di Bologna, mi ha fatto sovvenire un fatto simile accaduto molti, ma molti anni dopo da quello esposto. Il fatto che mi appresto a citare, è stato raccontato con dovizia di particolari nel bel libro di Alfredo Falcone, dedicato alla Ferrovia della Valle Caudina. Era la notte tra il 29 febbraio ed il 1 marzo del 1976, quando l’elettromotrice E 503 (con rimorchiata) proveniente da Benevento piombò alla lettera nella stazione di Cancello. Il destino ne decise l’istradamento portandola verso un binario tronco dove era in corso di allestimento un treno merci. Lo stesso fato aveva deliberato di salvare un convoglio carico di pendolari che era presente su un binario poco più in là. Non pochi furono i danni, ma fortunatamente solo di ordine materiale. Gli stessi operai dell’amministrazione, si accorsero in tempo del pericolo incombente e, sia pure a prezzo di contusioni ed escoriazioni, riuscirono a mettersi in salvo.

Il treno in allestimento riuscì a fermarne la pazza corsa coadiuvato dal muro del locale DLF. Il fatto così clamoroso occupò la pagina dei quotidiani locali e non, per molti giorni. D’altro canto il mancato rinvenimento tra i rottami del materiale rotabile, di un presunto guidatore ancorché folle, valse all’episodio l’appellativo de “Il caso del treno fantasma”. Scattarono le indagini per ricostruire l’episodio. Furono sufficienti quindici giorni per individuare il colpevole in uno sfaccendato meccanico del capoluogo sannita. Di certo appassionato di treni, era penetrato nottetempo nel deposito sociale di Benevento Appia. Malgrado la sua limitata capacità, era riuscito, dopo un sorprendente cambio banco e messa in presa dell’alimentazione, a far partire la macchina. Secondo la ricostruzione, fu però presto preso dal panico ed abbandonò il veicolo. Questo invece imboccò con decisione la strada verso Cancello (km. 46) acquistando una velocità sempre maggiore. Il bello, se così possiamo dire, è che riuscì anche a superare senza incidenti oltre trenta passaggi a livello sul suo cammino. E che erano, ovviamente, aperti.

    

L'assurdo sinistro pubblicato sul quotidiano Il Mattino del 3 marzo 1976 e,

lelettromotrice E 503 in composizione (Coll. G. Fiorentino).

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