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Non so quanti sappiano cosa sia la “Pignasecca”. Mi riferisco ai navigatori di questo sito che non vivono all’ombra del Vesuvio; in quanto agli altri, i partenopei, sono certo che non abbiano bisogno di illustrazioni. La Pignasecca è una zona di Napoli, distinta da una strada leggermente in discesa e con un gomito, percorsa senza soluzione di continuità da un fiume di persone in movimento il cui cammino viene ostacolato ora da quelli che la risalgono, ora dalle bancarelle dei numerosi commerci alimentari antistanti i negozi che debordano con arroganza fino al centro della carreggiata. Questo fiume in piena viene di tanto in tanto, alimentato dalla folla proveniente dalle stazioni della Cumana, della Funicolare o della Metropolitana quando aprono le loro fauci in concomitanza con l’arrivo di un convoglio. Già, non ve lo avevo detto ancora, questo incredibile quartiere, fatto di case addossate una all’altra, ospita ben tre stazioni (di cui due terminali), oltre poi un grande e storico ospedale detto “Pellegrini”. Il nosocomio annovera anche un servizio di Pronto Soccorso; lascio alla vostra immaginazione il trambusto provocato dalle varie bancarelle e dalla folla, quando sono costrette a spostarsi per lasciar passare una vettura od un’ambulanza con il loro carico bisognevole di cure e diretto al “Pellegrini”. Insomma se vi trovate a Napoli e volete carpirne l’immagine oleografica convenzionale, fatevi una passeggiata nella “Pignasecca”. Come potete prevedere passerete una mezzoretta davvero divertente. L’auto ovviamente, lasciatela a casa o nel garage dell’albergo.

La stazione della Metropolitana si trova a circa 100 metri dalle altre due, al centro di una piazzetta chiamata Olivella e che, fino agli anni ’70, era incredibilmente capolinea del filobus che vi perveniva attraverso la stretta Via Ventaglieri. La fermata si chiama Montesanto ed è posta lungo la storica linea Metropolitana FS, oggi chiamata M 2.

Le altre due (Cumana e Funicolare), sono ospitate nello stesso edificio che si affaccia sulla Piazza Montesanto, da cui si dirama appunto la Pignasecca passando per Via Portamedina. Il fabbricato, dall’originale aspetto e peraltro definito monumento nazionale, è stato di recente interessato da notevoli lavori di ricostruzione che, tuttavia, ne hanno rispettato l’originale frontespizio, limitandosi ad un profondo intervento sugli interni.

La stazione unica Cumana e Funicolare in un interessante rendering (da sito istituzionale).

 

Il piano del ferro, sia di quello unico delle ferrovie Cumana e Circumflgrea, nonché di quello della funicolare, si trova ad un’altezza di circa 7/8 metri dal selciato. In questo modo, arrivando con il treno o la funicolare, c’è la bella sorpresa di potersi affacciare dal terrazzo prospiciente i binari e godersi dall’alto, in posizione privilegiata, il bello e colorito movimento della varia umanità che si sposta lungo l’asse Portamedina/Pignasecca. Il tutto è sovrastato dall’incombente mole della collina del Vomero nel lato orientale, con i possenti edifici del Castello Sant’Elmo e dell’adiacente Certosa di San Martino. Lo sperone tufaceo viene penetrato dalle ferrovie Cumana e Circumflegrea, mentre la funicolare si limita ad ascenderlo per portare sulla sua sommità viaggiatori napoletani o turisti stranieri, desiderosi di godere dell’emozionante panorama sulla città vecchia, il porto ed i paesi vesuviani, che si può osservare dalla sua sommità. Il binario inclinato parte addossato alla montagna, consentendo ai passeggeri, avanti di arrivare alla prima fermata chiamata ermeticamente C.V.E. (Corso Vittorio Emanuele), di guardare per un tratto i tetti di quelle vecchie case che costituiscono la zona dei “Ventaglieri”. Il posto è davvero originale e suggestivo, tant’è che nel tempo è stato scelto per girarvi alcune scene di diversi film. Questo articolo vuole rappresentare un ricordo di quelle pellicole ed un omaggio ai loro registi illuminati, che con il loro gusto, hanno scelto “il set obliquo” lasciando pagine indimenticabili di cinema popolare ma nondimeno, spettacolare.

 

L'inaugurazione della funicolare in una incisione

dell'epoca - 30 maggio 1891.

(coll. A. Gamboni)

BREVE STORIA

DELLA FUNICOLARE DI MONTESANTO

La funicolare di Montesanto rappresenta oggi uno dei quattro impianti che operano per collegare il centro cittadino con la collina, di cui tre verso la sommità del Vomero ed uno verso quella della collina di Posillipo. In ordine cronologico, essa fu costruita per seconda, seguendo, anche se di poco tempo, quella che collegava, e collega, il Rione Amedeo con l’aristocratico quartiere collinare. L’operazione fu fortemente voluta dalla “Banca Tiberina” proprietaria di molti suoli “vomeresi”, fra la fine dell’800 ed i primi del ‘900, per far partire una vasta operazione di urbanizzazione di cui il celere e nuovo mezzo di comunicazione avrebbe costituito un insostituibile volano. L’impianto fu inaugurato il 30 Maggio 1891 dopo cinque anni di lavori, non privi di enormi difficoltà. Risultato dell’adattamento del progetto originale, fu quello che il previsto rettilineo alla partenza, in grado di ospitare due binari, fu sostituito da un ponte metallico ad “S” fino alla fermata Corso e largo quanto bastava per ospitarne uno solo. La sala macchine fu posta nella stazione a monte ed essa utilizzava come fonte di energia il vapore. La puleggia principale - dal diametro di m. 6,20 - muoveva un cavo di 45 mm. Questo impianto susciterà non pochi inconvenienti operativi. Perciò appena nove anni dopo, la Società Ferrovie del Vomero, subentrata alla Banca Tiberina, chiese la licenza per poter attivare la ben più affidabile trazione elettrica. Il nuovo impianto entrò in funzione il 21 Giugno 1901. Tuttavia la rivoluzione elettrica non altera le caratteristiche originali che le conferivano uno sviluppo di 867 metri con una pendenza tra il 15 ed 23%.

Come pure le vetture restano le originali e costituiscono due treni ciascuno di due vagoni aperti, di costruzione Savigliano. Nel 1936, si decide di sostituire i treni con materiale chiuso prodotto dalle OFM. Si tratta di sei carrozze di cui 2 + 2 per l’esercizio ed ulteriori 2 per riserva con utilizzo “a rotazione”. Le vetture sono numerate da 1 a 6 di cui le dispari (via destra) colorate in avorio e verde; le pari (via sinistra) in avorio e rosso. L’esercizio andò avanti per decenni senza particolari problemi, né la guerra arrecò danni tali da comprometterne l’utilizzo. Ma con gli anni ’60 iniziò un lento ma inesorabile degrado degli impianti e del materiale rotabile dovuto a scarsa o punto manutenzione. Questa fase si può dire si sia conclusa nel 1975, quando l’impianto passa di gestione all’Azienda Tramviaria locale ATAN (oggi ANM). È anche il momento del quasi concomitante cedimento strutturale dell’originale viadotto, che costringe il nuovo gestore a chiudere la struttura e far partire importanti lavori di ricostruzione. Essi durano ben sette anni in quanto il sisma del 1980 impone nuove e severe regole di sicurezza in materia di costruzioni.

La stazione superiore di Via Morghen all’epoca della sua inaugurazione.

(coll. Gennaro Fiorentino)

Quando nel 1984 la funicolare riprende il suo lavoro, l’impressione positiva più palpabile che ne percepisce l’utenza è data dalla sostituzione delle carrozze con due nuovi treni costituiti ciascuno da due moderne carrozze di costruzione Lovisolo ed equipaggiati con strumenti Agudio. In realtà la ricostruzione ha riguardato molto altro. Si sono riedificate le due stazioni terminali (Montesanto e Morghen), nonché restaurata quella intermedia del Corso.

È stata completamente rifatta e messa in sicurezza la massicciata che ora è fiancheggiata da una scala di emergenza. I motori sono stati sostituiti, unitamente all’impianto elettrico. Resta il rimpianto che l’ulteriore auspicata fermata intermedia, per la cui realizzazione era necessario lo scavo di un cunicolo pedonale, sia rimasta nelle intenzioni dei costruttori. Ma mai perdere la speranza. Negli anni 2004-2005, l’impianto ha avuto un altro intervento “di facciata”, questa volta per uniformare la stazione di Montesanto ai lavori che stava subendo l’adiacente stazione della Cumana di cui questo edificio costituisce una porzione. Anche i treni per l’occasione sono stati oggetto di un maquillage che con un intervento direi modesto, li ha resi di aspetto moderno ed allegro.

L’interno della stazione di Via Morghen come appare oggi con il treno revampizzato.

(Foto G. Fiorentino - marzo 2011)

 

 

UN MARITO PER ANNA ZACCHEO

  di Giuseppe De Santis (1953)

 

Il film appartiene alla breve ma significativa filmografia del regista Giuseppe De Santis (1917-1997), ritenuto uno dei padri del neorealismo. La semplice trama analizza i tormenti di una ragazza napoletana, Anna Zaccheo (Silvana Pampanini 1925), alla ricerca di un marito che possa riscattarla dalla vita modesta che conduce nella sua famiglia. In questa ricerca ostinata, la sua bellezza prorompente, per paradosso, non l’aiuta a raggiungere lo scopo; al contrario la contrasta come un ostacolo, verso il suo obiettivo.

Non tanto la trama del film, quanto la tematica di cui si fa portatore, appaiono oggi 2011 del tutto anacronistici e come tali superati. Infatti nello svolgersi della semplice storia, aleggia come un fantasma difficilmente da scacciare o esorcizzare, l’argomento dell’illibatezza femminile. La giovane Anna conosce Andrea, un bel marinaio marchigiano (Massimo Girotti 1918-2003) in transito per Napoli con la flotta militare. Nasce un breve ma tenero e promettente idillio che si conclude con la promessa del ritorno e conseguente matrimonio; “target” imprescindibile di Anna come di tutte le ragazze dell’epoca. Un successivo e gratificante lavoro come fotomodella, le daranno occasione per gettarsi nelle braccia del cinico agente Dottor Illuminato (Amedeo Nazzari 1907-1979) che si toglierà “lo sfizio” di privarla della sua purezza.

Verrà così messa all’indice sul lavoro, nel quartiere e nella stessa famiglia, costringendola ad andare a vivere da sola. D’altro canto i suoi principi non le consentiranno neanche di accettare la corte di un anziano e rozzo commerciante, disposto a dimenticare i trascorsi, ma ben intenzionato a portala sull’altare. Un fugace ritorno del marinaio Andrea le aprirà di nuovo il cuore alla speranza del lieto fine della sua vicenda. Invece il “buono” si rivelerà ben più spregiudicato di quelli che lo avevano preceduto. Infatti dopo una notte d’amore, che Anna non sa e non vuole negare al suo unico amore, il marinaio l’abbandona per sempre, giustificando la sua partenza perché la ragazza non aveva superato la prova cui l’aveva sottoposta. Infatti si sarebbe aspettato un diniego a conferma che, a prescindere dai suoi incontri estemporanei, fosse rimasta una ragazza onesta. Il regista fa intravedere in questa parte dello svolgimento del film, la disonestà subdola maschilista, molto più immorale della debolezza femminile. Il film si conclude con il ritorno in famiglia di Anna, dove viene accolta con un perdono corale sintetizzato dal sorriso del padre, dipendente della funicolare; della madre, cucitrice instancabile di guanti; del fratello maggiore, devoto del nulla fare; del fratello piccolo, apprendista barbiere. Si ripete così la parabola del figliol prodigo; “ammazzate il vitello grasso”, è tornata Anna, la cui sola colpa è stata quella di inseguire le sue illusioni. La funicolare di Montesanto compare al minuto 79, nel momento che Andrea torna, e sarà l’ultima volta prima dell’addio. Girovagando per Napoli, i due spasimanti prendono la funicolare. Si vedono i due vagoni partire dalla stazione inferiore verso il Vomero (il secondo è il numero 3). Segue una ripresa all’interno della vettura (chiaramente prodotta in studio), mentre una proiezione in evidente trasparenza, ci mostra in maniera realistica, ciò che si vede dal finestrino tra le stazioni Montesanto e C.V.E. E questo è davvero interessante. Per concludere dirò che nel film non manca la veduta di una vettura tramviaria “Officine”, ripresa presso il vecchio mercato del pesce, dove oggi ormai non passa più.

Fotogramma dal film con le due vecchie vetture in partenza per il Vomero.

 

   

IL GIUDIZIO UNIVERSALE

di Vittorio De Sica (1961)

 

Questo film certamente non sarà ricordato come uno dei migliori del prolifico regista ed attore Vittorio De Sica (1901-1974). Però “Il giudizio universale” qualche merito ce l’ha, non fosse altro che per la trama e la presenza di un infinito cast di attori italiani e stranieri. Per quanto riguarda la prima, si deve per forza riconoscerle una certa originalità. Essa fu dovuta alla penna di Cesare Zavattini (1902-1989), sceneggiatore del regista di numerose opere, e lui stesso regista cinematografico. Si distinse sempre per la sua stravaganza, concretizzata in operazioni di mediazione tra realtà e fantasia. Chi non ricorda, una per tutte, le scope volanti del film “Miracolo a Milano”? Ed in perfetta linea con il suo carattere fantasioso e fiabesco, inventò il singolare “plot” del film di cui si parla e che si svolge a Napoli. In una uggiosa giornata autunno-inverno, una voce cavernosa proveniente dal cielo, annuncia l’imminenza del Giudizio Universale che si sarebbe dovuto aspettare alle 18.00. Il fatale annuncio coglie di sorpresa una varia umanità, che più o meno, ha qualcosa da farsi perdonare. Si tratta di gente che tutto sommato ha compiuto peccati, che a volerli giudicare oggi, appaiono poco più che veniali. Però questi piccoli episodi, danno modo di apprezzare uno stuolo di attori italiani e stranieri, davvero rilevante che animano le tutt’altro che peccaminose vicende del collage.

Cito a memoria: Renato Rascel, Vittorio Gassman, Franco e Ciccio, Fernandel, Ernest Borgnine, Jack Palance, Paolo Stoppa, Andreina Pagnani, Anouk Aimèe, Marisa Merlini, Mike Bongiorno, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Ugo D’Alessio, Domenico Modugno, Lino Ventura, Silvana Mangano, lo stesso Vittorio De Sica anche attore, e tanti altri.Come avete notato, per un film ambientato a Napoli, la presenza di attori locali, e ce ne sarebbero stati tanti ed anche bravi, è proprio minima. E questo fu uno delle tante critiche mosse al bravo regista. Alle 18.00 in punto, anziché scoppiare il giudizio universale, dal cielo piomba un bello e salutare acquazzone che sarà accettato da tutti come una manna e che contribuirà un poco a lavare le coscienze. I cittadini napoletani, nel tripudio dello scampato pericolo essendo stato differito il Giudizio universale a data da destinarsi, si tuffano in festeggiamenti senza precedenti. La funicolare di Montesanto ospiterà un gruppo di partenopei che per manifestare la loro gioia, si affacciano dai finestrini brandendo stelline natalizie accese. La ripresa avviene con la macchina posta sulle scale del Fiorelli adiacenti la massicciata. Il film girato in bianco e nero, diventa a colori nel gran ballo finale al San Carlo, dove possiamo ammirare tra l’altro la giovane Eleonora Brown (1948), già apprezzata nella drammatica interpretazione nel film “la Ciociara” dell’anno precedente. Le sue immagini di ragazza impacciata alle prese con il ballo ed i primi spasimanti, concludono il film; mentre il sole ritorna a splendere sulla metropoli.

Le due vecchie vetture in discesa con i passeggeri che agitano stelline pirotecniche.

LE QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI

di Nanni Loy (1962)

 

Secondo il mio personale giudizio, questo film è il più bello diretto dal regista sardo (1925-1995) cui si devono anche il soggetto e la sceneggiatura. La pellicola che si guadagnò tre Nastri d’argento ed un riconoscimento al Festival del Cinema di Mosca, racconta in chiave epica, le vicende della sommossa spontanea e popolare che si svolse a Napoli nel settembre 1943 e che condusse alla liberazione della città dall’occupazione nazista. Il regista, di profonda convinzione pacifista, già nell’anno precedente 1961 si era cimentato in una pellicola ispirata alla resistenza partigiana a Roma: “Un giorno da leoni”. Tuttavia è nel film di cui stiamo parlando, che raggiunge una vera maturità espressiva. Raccontare le vicende di un evento storico, volendogli dare un taglio narrativo e non documentaristico, è impresa di non facile realizzazione. Nanni Loy ci riuscì in maniera egregia costruendo un ideale mosaico (la storia documentata) costituito da molteplici tessere (i vari episodi), animate da personaggi attinti ora dalla cronaca di quelle giornate, ora dalla sua fantasia.

Questi tipi, di certo tutti disegnati con un taglio popolaresco, sono affidati ad interpreti professionisti o presi “dalla strada” secondo l’esercizio del più schietto e tradizionale neo realismo. Così per esempio, l’episodio storico del  marinaio  livornese rimasto anonimo (Jean Sorel), fucilato  dai tedeschi  sul  sagrato  dell’Università Centrale

quale inconsapevole capro espiatorio del “tradimento italiano verso i nazisti” dell’8 settembre, si affianca a quello inventato, dell’intrepido partigiano ferroviere (Frank Wolf) spasimante di una donna sposata (Lea Massari). Queste ricorrenti commistioni tra storia e fantasia, contribuiscono come si diceva, a dare alla pellicola il ritmo del racconto con finalità documentaristica. Tra i vari episodi narrati, è certamente documentato, quello dell’insurrezione dei piccoli ospiti della gloriosa “Casa dello Scugnizzo”.

Questi ragazzi senza casa, né famiglia, conducevano la loro esistenza nell’ospizio posto nel quartiere Materdei, tutto sommato sopportando come necessaria un’ospitalità che sapeva di segregazione. Ascoltando gli echi della battaglia e la conseguente vulnerabilità della via di fuga, decidono di lasciare l’ospizio e scappare. Ma un po’ per impulso, un po’ per gioco, un po’ per eroismo, si lasciano coinvolgere nelle vicende dell’insurrezione, lasciando molte vittime sul selciato delle strade cittadine, trasformate in estemporanei campi di battaglia. Uno degli scontri più violenti, di cui furono protagonisti questi giovani partigiani condotti dal direttore del Collegio, si svolse nella stazione Corso della funicolare di Montesanto. L’episodio è riferito con precisione nel film di Nanni Loy, dove si assiste al combattimento tra i ragazzi capeggiati dal loro direttore (George Wilson) asserragliati in una vettura, mentre soldati nazisti, ben più equipaggiati e addestrati, cercano di superare il blocco aprendosi la strada verso il Vomero. La sequenza scorre al minuto 91. Essa consente di poter bene osservare la disposizione della stazione del Corso, teatro della battaglia e la sua particolare disposizione “a cavallo” del Corso Vittorio Emanuele. Inoltre il procedere del pattuglione tedesco in avvicinamento, rappresenta una buona prospettiva per osservare sia lo scambio fisso nel punto in cui il binario unico si duplica, nonché la particolare cremagliera ABT, posta tra i binari, con funzione di freno di emergenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pattuglia di tedeschi si avvia verso il Vomero e verso l’imboscata dei piccoli partigiani.

Il frame è ripreso allo stesso punto della precedente foto.

Da notare la cremagliera ABT con funzione di freno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La pattuglia è quasi giunta al punto di contatto con i partigiani,

sotto il ponte del Corso Vittorio Emanuele.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È scoppiata la battaglia. Frame ripreso allo stesso punto del precedente ma girato di 180°.

I piccoli partigiani sono asserragliati nella vettura 4 in alto.

 

Per quanto riguarda la carrozza, essa è la numero 4 che, almeno secondo la sceneggiatura del film, subisce apprezzabili danni. Ho motivo di pensare che all’epoca della realizzazione del film (1962), non fosse più interessata alla ciclica rotazione dei primi tempi di esercizio. Al contrario risultava accantonata nel deposito della stazione superiore e, come tale, fu posta sui binari in maniera posticcia e sacrificata alla gloria della decima musa. Oggi il luogo non è cambiato molto, a parte come detto, il restauro conservativo del contesto intervenuto nel corso del tempo.

Il contesto della battaglia descritta nel film, come appare oggi alla fermata del CVE.

(Foto G. Fiorentino - marzo 2011)

NAPOLI VIOLENTA

di Umberto Lenzi (1976)

 

Appartiene al genere “poliziottesco”, intendendo con questo neologismo un genere in voga negli anni ’70, inaugurato dal titolo “La polizia ringrazia” (1972) del regista Steno (1915-1988). Si tratta di una serie di produzioni italiane con un leit motiv che li accomuna: la delinquenza dilaga, le leggi sono troppo garantiste e la polizia ha le mani legate. Unica difesa può essere rappresentata da commissari che con sistemi spicci e non sempre ortodossi, somigliando più a sceriffi che a poliziotti, combattono il crimine in maniera efficace. La trama è davvero semplice. Il commissario Betti interpretato dall’attore Maurizio Merli (1940-1989), dopo precedenti esperienze in altre città italiane (vedi Roma a mano armata dello stesso regista o Roma violenta di Martinelli) piomba a Napoli dove dovrà vedersela con una criminalità difficilmente classificabile, che va dal fenomeno delle baby gang alla camorra in colletti bianchi. È proprio per combattere la gang diretta da un insospettabile personaggio «‘O Generale» (Barry Sullivan 1912-1994), che l’eroico commissario dovrà armarsi di ogni mezzo più o meno lecito. Il camorrista navigato si serve di un’efficiente èquipe di professionisti dediti al crimine per esercitare il racket e le rapine. In particolare uno spregiudicato gangster Franco Casagrande (Elio Zamuto) è lo specialista per la razzia delle gioiellerie e delle banche. 

Pur dovendo  sottostare all’obbligo  giornaliero della firma in Questura, riesce a consumare impunemente i suoi crimini raggiungendo il posto di polizia sempre in tempo e conseguendo dunque un alibi fornitogli per paradosso, dalle stesse forze dell’ordine. Ciò può avvenire grazie all’appoggio di un complice che, con un’efficiente e veloce motocicletta, riesce a battere l’orologio, per portarlo al posto di polizia. Dopo una serie di sconfitte contro il criminale, il “nostro” commissario incomincia ad intuire che la gang si sta prendendo gioco di lui. La rapina al Vomero, che gli era stata preannunciata da una soffiata, con conseguente mobilitazione di uomini e mezzi, si rivela uno scaltro tentativo di depistaggio. La vera rapina avviene in tutt’altro lato della città. Resosi conto dell’ennesimo smacco, si lancia ancora una volta all’inseguimento del suo acerrimo nemico il gangster Casagrande. Sarà anche l’ultima. Dopo una rocambolesca fuga in auto o a piedi per le vie della città, il criminale cerca scampo in un convoglio della funicolare di Montesanto, che si appresta a partire.

Troppo tardi per Betti che perde il treno per un soffio e vede il nemico per l’ennesima volta sfuggirgli. Ma il commissario non si arrende. Con un atletico salto, piomba sul vagone ed incomincia un duello come tra gatto e topo. La giustizia sta per trionfare. Alla fine della folle corsa, una dose di piombo somministratogli da Betti, secondo la migliore tradizione dei film poliziotteschi, concluderà la carriera del gangster, senza bisogno di passare per le aule dei Tribunali. La scena del duello in funicolare vale tutto il film ed è entrata di merito nelle scene “cult” del cinema mondiale. Fu girata senza ausilio di stunt men ma utilizzando per intero la prestazione di Merli, grazie alla sua forma fisica ed alla sua professionalità. La sequenza posta circa al 65° minuto è altresì una documentazione storica circa lo stato malandato dell’impianto di Montesanto. Anzi a tale proposito è lo stesso regista Lenzi (1931) che racconta un gustoso aneddoto. Per realizzare il segmento della sceneggiatura che prevedeva l’epilogo in funicolare, la produzione del film istruì la pratica presso l’ATAN (oggi ANM), che da qualche tempo aveva avuto la gestione dell’impianto.

L’ATAN, malgrado reiterate insistenze, si mostrò del tutto contraria a rilasciare i permessi, giustificandosi che non si poteva interrompere un servizio pubblico per girare un film. Gli sceneggiatori si erano quasi rassegnati a cambiare le scene finali, escludendo quelle in funicolare, quando provvidenzialmente arrivò l’USTIF (l’ente governativo di controllo degli impianti a fune) che ne impose la chiusura per gravi carenze strutturali. Il regista prese la palla al balzo e chiese un’ultima corsa ai fini cinematografici. Fu accordata, non dovendosi più interferire con il traffico passeggeri, ormai messo al bando. Vero o non vero, però di certo come tempi l’aneddoto è plausibile. Infatti il film uscì l’agosto 1976, e proprio la primavera di quell’anno, come riportano le cronache, la funicolare di Montesanto era stata chiusa. Concludo con un’ultima informazione interessante: il primo week end di uscita in una sala di Napoli, malgrado la città fosse vuota per ferie, la pellicola incassò la strabiliante cifra di 59 milioni, record a lungo imbattuto.

 

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